giovedì, settembre 25, 2008

Mangiar di stagione

Jill scrive un post con alcune riflessioni sulle scelte legate al mangiare frutta e verdura di stagione (poi sul "locally" devo capire bene...)

Sure, those reliant upon agricultural technology and trucking have no problem with eating asparagus from South America and English peas from California, but I do, especially when the name of this particular restaurant telegraphs seasonal and local. Not to mention that there is something wonderful about anticipating the arrival of spring asparagus or July apricots, and eating according to the seasons.

I also now have a problem with imported bananas, which I used to eat daily. Sure, I adore them, but shouldn’t they be a special treat rather than something I take for granted because the United States has the means — money and oil — to get them here as well as the demand? But then technically, I shouldn’t be drinking coffee every morning, should I? And the sugar in that coffee — well, I should be using maple syrup instead, right? And all those non-indigenous flavors I enjoy on a daily basis thanks to globalization — should I cut those out, too? Where do we draw the line?


Devo dire che è un tema che sento trattare sempre più spesso dai miei amici che vivono negli Stati Uniti. Credo che i problemi legati all'economia contribuiscano a riflessioni del genere.

Personalmente, mi rendo conto della differenza tra il mangiare prodotti di stagione o no, mi rendo conto della differenza di sapore tra cibi coltivati nelle serre e quelli coltivati nei campi (sono ancora abbastanza fortunata da poterlo fare, talvolta) ma, devo dire, non è che io abbia una particolare opinione su questo.
Anche: non riesco a capire quanto ci sia di "culturale" in queste posizioni: questa estate, ad esempio, ho letto articoli in cui il fattore culturale era portato a sostegno di posizioni tipo "non dovremmo mangiare kebab o altri cibi etnici perché non sono cibo tradizionale".
Non era chiaro se il problema culturale fosse dei paesi che "esportano" kebab o di noi che lo "importiamo".

Insomma, food for thought. Che è un modo carino di dire che mi son venuti un po' di pensieri sparsi a partire dal cibo, ma non ho ancora stabilito le eventuali linee da tracciare (se pure vanno tracciate).

3 commenti:

ALittaM ha detto...

Io sto diventando molto severa su quello che mangio: dev'essere il più possibile locale o regionale.
Detesto acquistare acqua che viene dall'altra parte d'Italia, o dalla Francia, mi piace bere acque e vini locali.
Adoro la verdura e la frutta di stagione, mi sembra si abbini meglio all'umore del momento (un bel risotto ai funghi in autunno, una grigliata di melanzane d'estate) e mi sembra inoltre di sprecare meno risorse: si tratta di cibo coltivato vicino a dove abito, che non ha viaggiato dentro un container surgelato e che non ha sprecato carburante per arrivare fino a me. :)
Anche questo fa parte di una vita maggiormente ecosostenibile (abitando con Stefano che è fanatico del riciclo e del risparmio di energia era inevitabile che diventassi così anche io!)

Anonimo ha detto...

Mah,sulle acque minerali forse posso essere d'accordo, su banane o cacao un po' meno perché ci sono interi paesi che reggono le loro economie su questo tipo di esportazioni (che noi abbiamo loro imposto in epoca coloniale); se ora all'improvviso non consumassimo più quel tipo di prodotti ne ricaverebbero probabilmente più un danno che un guadagno (anche se molta parte di quell'export è controllato dalle multinazionali). Del resto, anche il mio piccolo Trentino esporta, mica consuma in casa tutto quello che produce: esporta vino, mele, spumante... E non mi pare che questo arrechi un danno alla sua identità, anzi, semmai la fortifica. Comunque, io che amo il mangiare "straniero" (e la musica straniera, e la letteratura straniera, e il cinema straniero ecc. ecc.) mi pongo aa mia volta il problema della riduzione del volume dei traffici mondiali (traffici che producono inquinamento, effetto serra ecc.). Penso però che in questo come in altri campi non bisogna essere khomeinisti. Anche perché poi, alla fine, nemmeno la pizza che mangio almeno una volta alla settimana è un prodotto autoctono. Ma non riesco ad immaginare un mondo senza pizza.

stered ha detto...

Io sto tentando la via dei Km 0 e del biologico. Mangiare cibo prodotto il più possibile vicino al proprio luogo di residenza è un problema legato al rendere più sostenibile il commercio (in vari termini come ha spiegato bene alittam).
Lo sto facendo con la frutta e la verdura, con i formaggi, con le birre. Ci stiamo attrezzando anche per la carne.
Poi ci sono i prodotti esotici, e con quelli ci sono meno sensi di colpa se si usa il commercio equo e solidale, il ricavato invece che alle multinazionali andrà in buona
parte a chi coltiva quei prodotti.
Non si può comunque generalizzare, ci sono prodotti fortemente regionali o etnici che mi piace consumare e lo faccio. In effetti l'economia si basa anche su quello.
Una delle cose in cui invece sono diventata intransigente è il consumo dell'acqua in bottiglia. Io ormai da qualche anno uso quella dell'acquedotto, che non ha bisogno di trasporto, è molto meno costosa e spesso è migliore di quella in bottiglia.