sabato, aprile 30, 2011

Lo strano caso del certificato di nascita: Obama, i birthers e un errore strategico

In questi giorni negli Stati Uniti uno dei principali temi politici è stato il certificato di nascita del presidente Obama: un'occasione di riflessione sotto vari punti di vista.


Lo strano caso del certificato di nascita
La possibilità che il presidente non sia nato negli Stati Uniti (requisito di base per la sua elezione) è stato un argomento già usato dai repubblicani in campagna elettorale, facendo leva sul suo secondo nome (Hussein) e su vari altri elementi per instillare il dubbio - e peggiori sospetti - nella popolazione.
Adesso, con l'inizio della nuova campagna elettorale, il tema viene riportato alla ribalta, tra l'altro con Donald Trump portavoce d'eccezione  - si candiderà?).
Tra le battute dei commentatori democratici e la satira (per tutti: Why Won't Hawaii Produce Documents Proving It's a State?), lo scorso 25 aprile la Casa Bianca ha reso pubblico il certificato - e anche qui l'Huffington Post non ha perso l'occasione di una presa in giro ai birthers, coloro che sostengono questa battaglia.



An "unforced error"
Qui entra in gioco la strategia di risposta. O meglio, dovrebbe.
L'argomento e l'insistenza della richiesta, oltre all'uso strumentale che ne viene fatto, sono argomenti da girare potenzialmente al proprio elettorato, più ancora che per chiarire la propria posizione, per dare possibilità di avere tutti gli strumenti per controbattere a una "bufala" di facile diffusione.
Ma nella periodica email inviata alla base di 13 milioni di elettori dallo staff della campagna non c'è traccia della questione "birth certificate". Come mai?
Micah Sifry ne parla su TechPresident riportando l'opinione di un osservatore di spessore, il giornalista Ari Melber:
From a purely strategic political perspective, the mainlining of the birther attack is a major mobilizing opportunity, and it's the kind of thing they were adept at during the campaign, but have been reticent to do in the OFA/governing period. ...Also, the core activists opening these emails are news consumers, this was the big political story, so choosing to send a message like this on such a big day - a day that was even intense and emotional for many supporters and African Americans - without any reference to it makes it feel like the campaign messages are coming from a different planet, rather than providing special information and a direct line to Obamaland.

Micah aggiunge la sua visione più generale su quello che Obama For America è stato in campagna elettorale e non è più riuscito ad essere dopo la vittoria:
For years now, it's been obvious that OFA's approach to its base has been radically different from the days of the Obama campaign. Then, the campaign stoked supporters passions. Now, they try to temper them. Instead of firing people up in ways that might be uncontrollable, OFA sought to keep its base engaged with innocuous activities that shook few windows and rattled few walls. (I've heard, internally, that this was referred to as the "hamster wheel" approach.) The result is what I've called "The Obama Disconnect."

The Obama disconnect: un doppio fallo
Il tema è stato dibattuto in questi anni - molto poco in Italia, dove la campagna elettorale di Obama ha ancora l'aura mitica della vittoria dell'outsider e del ruolo della Rete in questa vittoria.
Ma il disincanto non sfugge agli osservatori più attenti e se ne è parlato di recente al panel sull'informazione politica svoltosi al Festival del Giornalismo a Perugia.
Micah aveva affrontato l'argomento in questi termini e proprio per questo mi è sembrata una buona idea chiedere agli altri speaker una loro opinione.
Stefano Epifani risponde con un bel post in cui dice la sua mantenendo la metafora sportiva. E rincarando la dose:
più che un unforced error quello di Obama mi sembra – sempre per rimanere nella metafora sportiva – un doppio fallo.
  • un errore è quello tattico, ossia non aver citato nella mail il tema del fatidico certificato di nascita cercando di volgerlo a proprio favore;
  • l’altro errore è quello strategico. Ed è più grave. Non farlo ha voluto dire non dare ascolto a tutti quegli elettori con i quali Obama si vanta di aver aperto un dialogo (ma l’ha aperto davvero?) dando loro voce ed ascolto. Dov’è finito quell’ascolto ora, che una parte importante della Rete (e che sia importante lo si vede anche, ad esempio, dal numero di visitatori di alcuni video su YouTube) pone una domanda in maniera così pressante? Se si vuol avviare un dialogo non si possono ignorare le domande dei nostri interlocutori.
E’ vero, in rete si dice “don’t feed the Troll“, ma in questo caso i troll non sono tali ma sono elettori e sono molti, e sono parte importante di quel popolo che dovrebbe rinnovargli la fiducia. Ignorarli non mi sembra un buon modo di costruire il dialogo.

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