mercoledì, luglio 17, 2013

Le cose cambiano (e cominciamo a cambiarle)



Da qualche tempo collaboro con Le Cose Cambiano, progetto per combattere il bullismo omofobico, creato dall'associazione Girls and Boys e dalla casa editrice ISBN Edizioni.

Le Cose Cambiano nasce da It Gets Better Project, nato nel 2010 per iniziativa dello scrittore Dan Savage e di suo marito Terry Miller, dopo alcuni suicidi di adolescenti vittime di bullismo perché gay.
It Gets Better è iniziato così, con un video della coppia che parlava di quanto era stato difficile superare l'adolescenza, ma che, soprattutto, condivideva i momenti belli della vita insieme per dimostrare che le cose cambiano, migliorano. Da lì, l'iniziativa si è diffusa, moltissimi video sono arrivati, inclusi quelli di personaggi famosi, anche non appartenenti alla comunità LGBT.

Alcune tra queste sono diventate un libro, It Gets Better: Coming Out, Overcoming Bullying, and Creating a Life Worth Living", realizzato raccogliendo alcuni tra i messaggi di persone comuni e celebrità, da Obama a Ellen DeGeneres, da Michael Cunningham a Hillary Clinton.
A settembre ISBN pubblica l'edizione italiana del libro - tradotta (e ne sono assai contenta) dalla sottoscritta - che conterrà anche diverse testimonianze tra quelle arrivate al sito di Le Cose Cambiano.

Da parte mia, cerco di dare un piccolo contributo anche scrivendo alcuni post per il blog del sito: è una specie di piccola rubrica che si chiama Cose dell'altro mondo e che raccoglie notizie provenienti dall'estero.
Si tratta di un percorso lungo e difficile, ma che va fatto, da tutti e per tutti. Per tanti motivi che possono suonare retorici - e il cinismo si porta sin troppo - ma, volendo sintetizzare, perché sono diritti, perché è assurdo che le persone abbiano paura per quello che sono.

[sto per sbracare? Forse. E allora, già che ci siamo, grazie a Linda e a Chiara, che mi permettono di fare la mia piccola parte]


martedì, luglio 16, 2013

Cittadini e istituzioni - riflessioni post State of the Net

Foto di Alessio Jacona (CC BY-NC-SA 2.0)

È come cercare di far comunicare due persone di diversa nazionalità che non conoscono l’una la lingua dell’altra. Come qualche esperienza in un Paese straniero può farci ricordare, però, la volontà di comunicare in qualche modo riesce a farci ottenere qualche informazione utile, almeno. Ma solo se il nostro interlocutore vuole comunicare con noi. 
Questa precondizione mi sembra mancare nella maggior parte dei casi e credo sia il primo passo da fare: le istituzioni non sono abituate a comunicare coi cittadini, sono abituate a controllare le informazioni e a non condividerle. D’altro canto i cittadini, spesso esasperati per vari motivi, usano i nuovi canali per sfogare la frustrazione, più che per dialogare e partecipare, rendendo difficile il lavoro anche a chi lavora bene e cerca di spiegare l’azione pubblica. 
Una comunicazione efficace comincia col reciproco ascolto. Per poi trovare un linguaggio comune.

Lucio Bragagnolo mi ha intervistato per Apogeonline su State of the Net: abbiamo parlato della comunicazione tra cittadini e istituzioni, di accesso all'informazione e della creazione di una cultura della partecipazione.
Per me è stata una buona occasione di ripensare alla conferenza e, in particolare, alla mia sessione su politica e cittadinanza, di cui elenco gli interventi qui di seguito.



Ed è una buona occasione anche per recuperare tutti gli altri interventi e panel della migliore conferenza italiana su questi temi.
Per essere pronti all'edizione 2014, chiaramente.

domenica, luglio 14, 2013

Comunicazione, questione di strategia - lezioni da Alastair Campbell


Viene da chiedersi: se i comunicatori sono bravi a comunicare, com’è possibile che la comunicazione abbia una reputazione così drammatica? La risposta, dal mio punto di vista, è che i comunicatori non sono poi così bravi, ma anche perché i veri spin doctor, nel mondo d’oggi, sono i giornalisti, quelli della tv, i blogger, e tutti loro vogliono far credere ai propri lettori di possedere il monopolio della verità, e in modo più o meno sottile suggeriscono di ignorare chiunque altro: i politici, i loro portavoce, le aziende e i loro consulenti, gli stati e i loro “brand manager”. 

 Ci sarebbe da commentare e citare molto dell'intervento di Alastair Campbell al Centre for Corporate Public Affairs di Melbourne di cui oggi Europa pubblica alcuni estratti.

A prescindere dall'opinione su Blair e Clinton (e non dovrei precisarlo, ma tant'è), questo intervento spiega alcune cose fondamentali sulla comunicazione politica e sulla sua quasi totale assenza nel nostro Paese.
Ma anche sui vari fraintendimenti a riguardo: che la comunicazione possa farla chiunque, che i media vadano inseguiti, che il dialogo che la politica ha con giornali e tv possa essere semplicemente trasposto sui social media, che "la gente non capisce".
Di recente ho lavorato con un leader politico che mi ha chiesto: «Come faccio a fare la cosa giusta rimanendo popolare?». Gli ho risposto: «Fai la cosa giusta». Ma la fai all’interno di una chiara cornice strategica, ti confronti costantemente col pubblico, metti in piedi sistemi di coordinamento che funzionano, in modo che col tempo il tuo messaggio arrivi al bersaglio, col tempo i tuoi cambiamenti siano compresi, col tempo la gente diventi più ragionevole nei suoi giudizi. Quello che fai è più importante di quello che dici, ma come lo dici può aiutarti se stai facendo la cosa giusta.

Oggi, in un contesto mediatico rapidamente cambiato e ancora in mutazione, forse il più grosso fraintendimento sulla comunicazione politica oggi è che si tratti di forma rispetto alla sostanza delle cose fatte e da fare.
Dimenticando, come giustamente scrive Francesco Cundari, che i problemi di comunicazione non sono mai problemi di comunicazione.