venerdì, marzo 09, 2012

Jennifer Egan e il tempo continuo (che forse è un bastardo)

Stasera alle 18, al teatro Parenti di Milano, ci sarà un incontro con Jennifer Egan, autrice de "Il tempo è un bastardo", romanzo premio Pulitzer 2011 (in Italia è pubblicato da Minimum Fax).

In questi mesi, per una serie di circostanze, mi è capitato di parlare del libro ben oltre la lettura dello stesso, e di leggere della sua autrice ben più di quanto normalmente mi capita per romanzi contemporanei. Per questo sono particolarmente curiosa di sentire raccontare da lei di temi ed elementi che mi hanno colpito e mi hanno fatto fare un po' di conversazioni interessanti, saltellando tra scenari lavorativi e movimenti di altro genere e respiro più ampio - cosa che non capita spesso, per via della velocità (e del tempo, ci risiamo).

In più, oggi ho letto un densissimo saggio di Gianluca Didino (sì, è su un blog. sì, è meno lungo di un saggio. sì, sono distinzioni senza più senso) sul libro di Egan, sulla complessità e sul tempo. Uno di quegli scritti che ti fa venire voglia di prenderti del tempo per leggere di più (e magari leggere Faulkner e rileggere Bergson), studiare altro, elaborare - solo nella tua testa, per carità - riflessioni e spunti che vanno veloci e che affiorano e poi spariscono troppo in fretta, prima che li si possa acchiappare.

Non sono decisamente una critica letteraria, quindi lascio ad altri ben più competenti la lettura,  l'analisi ed eventuali risposte. Segno però qui due spunti, soprattutto per me:
[...] per Egan la maturità non è una meta, non è “tutto” (come scriveva appena prima di suicidarsi Cesare Pavese, altro ragazzo che non aveva voluto o non aveva potuto decidere di crescere, in una splendida commistione di disperazione e ironia). Per Egan la maturità è ciò che resta, l’unica strada possibile per non finire risucchiati in un vortice temporale privo di coordinate diretto a velocità folle verso l’infinito.
Infine, collegato, ma non solo, un appunto sul "linguaggio puro", di cui si parla nell'ultimo capitolo:
Il punto, semmai, è avanzare un’ipotesi interpretativa della realtà contemporanea che non ne appiattisca la complessità riducendola a un omogeneizzato di cultura pop e sappia al contempo guardare al futuro senza rimpianti: è questo forse il “linguaggio puro” evocato nell’ultimo capitolo, l’ammissione, terribilmente eversiva visti i tempi che corrono, che un futuro esiste e ha senso andargli incontro.

(che, beh, forse mi ha preso più per la quasi irragionevole e necessaria speranza che l'ultima frase trasmette)

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