Nell'ultima settimana mi è successo per tre volte.
La prima è stata quando mia madre mi ha raccontato che, nella mia città natale, i “Forconi” avevano minacciato gli impiegati di una banca di ripercussioni se non avessero chiuso la filiale e sospeso le attività (spaventando ovviamente i presenti, inclusa un'anziana signora che si è sentita male).
La seconda è stata il 12 dicembre, a Milano, quando durante la commemorazione di piazza Fontana, un gruppo di persone, prevalentemente giovani, ha iniziato a urlare, contestando Maroni, “i fascisti” e altre cose che non ho ben capito.
Potevano aspettare che terminasse il momento di silenzio, invece no, hanno dovuto urlare, creando qualche scaramuccia verbale, nulla di più, per fortuna.
Per la prima volta mi sono sorpresa a pensarla come a una violenza.
Dopo sono rimasta ancora un po' mentre la piazza si svuotava lentamente. C'era una signora che mi ha detto che viene a piazza Fontana ogni 12 dicembre, da 25 anni. Per anni ha buttato giù il dispiacere e la rabbia di vedere gli amministratori leghisti e di destra alla commemorazione, ma questa è stata la prima volta che non ha potuto avere silenzio per le vittime.
Poteva avere l'età di mia madre e aveva quasi le lacrime agli occhi mentre lo diceva.
Infine è successo oggi, quando una mia amica mi ha raccontato di essere stata investita su una strada pedonale da un uomo in bicicletta, in una zona centralissima di Roma.
Ora, voi la mia amica non la conoscete, ma è la persona più educata e deliziosa che ci si possa immaginare (insomma, non come me – che probabilmente gli avrei dato del cretino) e quindi si è limitata a dirgli che non è modo di fare.
Sentendosi rispondere "stai zitta, sporca troia" e venendo spinta tanto forte da finire per terra.
Per tre volte in una settimana mi sono sentita ostaggio.
Ostaggio di chi urla più forte, di chi spinge, di chi minaccia. Di chi pensa che la sua rabbia, la sua frustrazione vadano affermate subito e comunque, di chi deve dire “io, io” – magari pensando di dire “noi”, a volte, ma senza nessuna intenzione di ascoltare gli altri che fanno (farebbero?) parte di quel noi.
Mi sono sentita ostaggio nel Paese in cui vivo – e non mi era mai successo.
Anzi, peggio ancora, mi sono sentita ostaggio delle persone che con me vivono in questo paese.
E non è un giudizio di valore, non so se quelle persone avevano istanze giuste nei casi specifici (nel caso della mia amica lo so: ciclista, se ti becco ti corco).
So che mi sembra sempre più che la scelta fatta da tanti sia di non pensare a lungo termine, di non pensare non solo al futuro, ma anche solo a domani. C'è solo l'oggi, la rabbia, lo sfogo, il gridare “io, io”.
Questa settimana, per la prima volta, per un solo momento, ho avuto paura.
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