Non mi occupo di libri per lavoro e a volte mi dispiace, per quella comune deviazione del pensiero che ci fa immaginare quanto sarebbe bello occuparci tutto il tempo di cose che amiamo (come se amarle bastasse a renderci adatti a occuparcene per lavoro).
Non mi occupo di libri e a volte penso che sia meglio, perché non so se sarei brava o rigorosa, per quanto ho letto, quanto poco sistematicamente rispetto alla quantità, quanto disordinatamente, quanto voracemente. Non so se renderei giustizia a un libro, non so se sarei capace di analizzare, di capire, di farci tutte quelle cose che fanno le persone che scrivono i libri e che coi libri - sui libri - ci lavorano.
In certi periodi (come questo), con un po' di fortuna, riesco a trovare un po' di tempo e a mettere insieme un po' di libri e il tempo per leggerli e respirare un po'.
A volte, con molta fortuna, mi capita di tornare a casa e, per una serie di coincidenze, ritrovarmi a leggere una piccola storia con tutte le parole al posto giusto, con le immagini nitide, con la storia di un altro e però il ricordo della prima volta che il mondo là fuori mi ha deluso.
Non mi occupo di libri e a volte penso sia una fortuna, soprattutto quando sento chi ci lavora parlarmi di deformazioni professionali in varie forme e dirmi che, spesso, i libri non riesce più a goderseli.
Non so se sia vero, o se sia vero sempre, ma il rischio, se c'è, non vorrei correrlo, perché son sempre stati l'unico modo per perdermi, nel senso migliore del termine, ed è una cosa che mi riesce sempre meno di frequente. Come stasera.
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