Il 1992 è il primo anno di cui ho "memoria storica", per così dire, il primo anno di cui ricordi qualche avvenimento nazionale.
Non avevo ancora 11 anni il 23 maggio di quell'anno, il giorno di Capaci. L'improvvisa sensazione di una cosa grande, troppo grande, un po' come svegliarsi e scoprire che c'è il mondo intorno e che è un po' più vasto e complicato di quello che ti è sembrato fino a quel momento.
Ricordo i funerali, il dolore delle mogli, della gente comune. Poi non tanto altro, se non che cominciai a leggere molto, moltissimo, qualunque cosa riguardasse quella strage, la figura di Falcone, quelle persone. E Paolo Borsellino, che in molte foto era con Falcone, in una, forse in posa, schiena contro schiena, una specie di simbolo di quello che era, di quello che sarebbe stato, di quello che si diceva già, che il prossimo era lui, inevitabilmente.
Beh, io no, non ci ho creduto, anzi mi pareva una garanzia del contrario: voglio dire, se lo pensano, se lo sanno, sapranno come proteggerlo. Loro, quella cosa indistinta che ancora non chiamavo Stato, ma che mi pareva una sufficiente sicurezza.
Il 19 luglio era domenica, riesco a ricordarlo per una serie di piccole cose, consuetudini familiari tipiche di quel giorno della settimana. Non ricordo l'ora, forse pomeriggio, potrei sbagliare, mi pare ci fosse ancora luce quando mi sono ritrovata in piedi davanti al televisore a guardare via d'Amelio, incredula, senza parole. Sono andata in camera dei miei, mi sono seduta ai piedi del letto, dal lato di mia madre, quello più lontano dalla porta, come avevo fatto in quei giorni, mentre i grandi parlavano in soggiorno, rileggendo uno di quegli articoli, quello con la loro foto, schiena contro schiena. Non erano passati ancora due mesi, non era possibile.
Tradita, probabilmente non l'ho pensata, questa parola, ma era quello che sentivo. Era come se i grandi mi avessero detto una bugia. Lo sapevano, lo avevano scritto sui giornali, lo avevo letto io, persino io, che lui era il prossimo. E questo era una garanzia che non gli sarebbe successo niente, non poteva che essere così, avrebbero fatto qualcosa per impedirlo. Loro, quella cosa indistinta che ancora non chiamavo Stato, ma che mi pareva una sufficiente sicurezza.
Lo avevo creduto e il mondo dei grandi mi ha deluso allora, per la prima volta.
Non so davvero perché mi sia presa questo evento tanto a cuore, non so perché a distanza di sedici anni mi ricordo i due anniversari ogni anno e controllo se se lo ricordano anche gli altri, almeno sui giornali. Mi è tutt'ora incomprensibile il motivo per cui ogni volta che vedo delle immagini o ne sento parlare mi prende un groppo in gola e mi resta lì per un po', come stamattina, quando ho rivisto lo speciale de La storia siamo noi - e sarà minimo la terza volta.
Non so nemmeno perché queste cose mi girino in testa da una settimana, quando ho partecipato al primo incontro della scuola di formazione politica "Antonino Caponnetto". Sabato scorso, nel consueto caldo tropicale di Bologna d'estate, ho ascoltato le parole intense di persone diverse tra loro, ma tutte attente, appassionate. Appassionate. Come le parole di quel magistrato esile che dice "è tutto finito", con il dolore e lo sgomento tanto più consapevoli ma forse non così diversi dai miei quel giorno.
Quel signore che a me pareva vecchissimo ma che avrebbe vissuto ancora dieci anni portando la sua esperienza e la sua testimonianza e dando motivazione a tante persone, non ultime quelle che hanno deciso di dare il suo nome a questa iniziativa.
Alcune frasi di Caponnetto sono state lette sabato. Lucide, forti. Di quelle che ti fanno pensare che non è tutto finito, che ora puoi fare qualcosa, anche a modo tuo, anche se ti senti tradito, anche se i grandi ti hanno detto una bugia.
(Ora che sono grande anch'io)
2 commenti:
Ho partecipato anch'io al Primo incontro della scuola di formazione politica "Antonino Caponnetto" a Bologna. E' stato molto interessante e spero vivamente che quest'iniziativa vada avanti.
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