domenica, marzo 02, 2008

La mia Persepolis

(stasera, tornata dalla visione di Persepolis, ho ripensato a una cosa che avevo scritto un paio di mesi fa e l'ho recuperata)


Sono tornata a Roma, alla vita da ufficio, alla casa e alla piccola N., la coinquilina che mi riempie di cibo ogni volta che sono a tiro perché “lavori tanto e torni tardi, fai un lavoro difficilissimo, vero?”.

La piccola N. è minuta e persino più bassa di me e ha 18 anni, il che mi fa sentire una vegliarda ogni volta che ci penso. Mi racconta della facoltà di medicina, del ragazzo tatuato che ogni tanto viene a trovarla (con cui esce, ma poi lui non chiama mai), dei vestiti che ha comprato in un negozio. Sono cose normali, ma io un po' – e a torto – me ne stupisco.

N. viene da una famiglia molto benestante e aperta che ha deciso di far studiare lei e sua sorella tanto lontano da casa. Quando parla al telefono con i genitori lontani io cerco di andare in un'altra stanza. È una forma di rispetto che in realtà è totalmente inutile, dato che comunque non capirei una parola. Perché no, la piccola N. non è italiana.

Quando l'ho vista prepararsi per tornare a casa, prima delle feste di Natale, sbuffava sistemandosi in testa una specie di scialle. “Nel mio paese dobbiamo mettere questo” ha detto. Non so perchè ci ho messo un attimo più del dovuto a riconoscere il velo con cui le ragazze iraniane devono coprirsi la testa.

Al ritorno dalle vacanze le ho chiesto come si fosse procurata il livido sul braccio, sapendo la risposta. La piccola N. viene da un paese dove è normale che la polizia ti arresti e ti picchi per i motivi più assurdi, incluso un vestito ritenuto troppo corto.

Un paio di sere fa ho assistito a una violento rant (o anche: monologo incazzato) da parte di uno che ha cominciato auspicando il peggio possibile al Vaticano e a tutte le religioni, poi ha continuato mischiando tali e tante cose che alla fine, oltre ad aver perso il filo, ho temuto che sarebbe arrivato a prendersela con qualunque cosa, dal vino bianco ai blocchi di ghisa. Credo si aspettasse una risposta o una reazione da parte di qualcuno, ma per educazione mia ed evidente confusione sua, ho ritenuto che non fosse il caso di cimentarmi.
La cosa che mi ha colpito è che nel soliloquio in questione abbondava la parola libertà (mancanza di). Era tutto un: non siamo liberi per via della Chiesa, per via della mafia, per via del sistema (!), non decidiamo niente, non possiamo ecc.

Lo ammetto, tendo a essere un po' esigente e rognosetta quando si tratta di “presunto controllo altrui”. Non perché io pensi che tutto vada bene, non perchè io ritenga che la gerarchia ecclesiastica (e non solo quella) non abbia eccessiva influenza sulla società italiana, tanto per dirne una.

E però.

E però da quando conosco la piccola N. penso spesso a lei quando sento la parola libertà, perché mi pare abbia un significato talmente diverso da sembrarmi un'altra parola.


(inserire qui una frase di chiusura un po' leggera e fintosimpatica a piacere chè questa pare troppo seria. In fin dei conti è solo un'accozzaglia di pensieri e la lascio così)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Qui c'è la mia:
http://www.smeerch.it/2008/03/05/persepolis/

Melina2811 ha detto...

Sto facendo un giro su blog che conosco e che non conosco, ciao da Maria

Giovy ha detto...

In alcuni paesi la "libertà" è un'utopia, ed a volte ci è difficile anche immaginare come si possa vivere in realtà così diverse dalla nostra.
Stavo facendo stamattina una riflessione simile pensando alle prossime Olimpiadi in Cina, paese che lascia davvero poco alla libertà individuale. Quanto è vero quello che hai scritto... la parola "libertà" dovrebbe essere universale ma... il suo significato a volte non lo è affatto.