Tahrir Square, febbraio. By Ramy Raoof |
Dopo un anno di primavera araba e Occupy Wall Street, chi aveva ragione?
Il dibattito
In un articolo del New Yorker di cui si è molto parlato (ottobre 2010), Gladwell parlava dell'evoluzione dell'attivismo degli anni '60 per confrontarlo con quello (presunto?) di questi anni di social network.
Nella sua analisi, Gladwell riprendeva anche la distinzione di Granovetter tra strong ties - i legami forti e costanti che manteniamo con le persone a noi vicine, famiglia e amici stretti, presumibilmente in contesti maggiormente omogenei - e weak ties - quelli deboli che però ci consentono di avere contatti con reti più estese e varie (risultando, ad esempio, più utili nella ricerca di un lavoro, secondo il sociologo). Nelle rivoluzioni, nei momenti in cui è necessaria azione, sosteneva Gladwell, sono i legami forti che ti fanno agire, non certo i legami deboli, non certo i social network e le "amicizie" su Facebook, non i clic di sostegno a cause vicine e lontane.
Pessimismo o realismo?
Non è tutto qui, secondo Clay Shirky, docente a NYU e una delle voci più riconosciute e apprezzate per quanto riguarda le analisi dei movimenti sociali al tempo della Rete (sono considerati fondamentali i suoi saggi Here comes everybody e The cognitive surplus, entrambi tradotti in Italia da Codice Edizioni).
In un lungo articolo Shirky ha risposto così:
“the fact that barely committed actors cannot click their way to a better world does not mean that committed actors cannot use social media effectively.”Cioè: certo, qualche clic qua e là non ha impatto sociale, ma questo non vuol dire che chi invece sta impegnandosi attivamente non usi invece i social media in modo efficace, persino inventando nuove modi di farlo.
In sintesi
La sintesi la fanno loro in uno scambio di lettere su Foreign Affairs:
Gladwell: [Shirky's] argument to be anything close to persuasive, he has to convince readers that in the absence of social media, those uprisings would not have been possible.
Shirky: I would break Gladwell’s question of whether social media solved a problem that actually needed solving into two parts: Do social media allow insurgents to adopt new strategies? And have those strategies ever been crucial? Here, the historical record of the last decade is unambiguous: yes, and yes.
Chi ha ragione?
Anche in Italia, il dibattito tende a polarizzarsi, perché è molto più semplice gestirlo così (e anche qui andrebbero fatte diverse riflessioni).
Per parte sua Wasik propone alcune interessanti riflessioni sulle posizioni di entrambi e conclude così:
As Shirky puts it, digital networks “do not allow otherwise uncommitted groups to take effective political action. They do, however, allow committed groups to play by new rules.”
To this assessment, I’d add something else: They create new rules for how committed people get and stay connected with one another, and how those connections get classified, even in their own minds. After all, it’s not hard to imagine that, when faced with a questionnaire asking to list their closest friends or associates, these activists would list one another, rather than their family or the people they drink with in their own hometowns.
Activists may need “strong ties” to risk their lives in the streets, but it’s clear those ties can stretch across continents, and can consist entirely of bits — right up until the moment when they come together.